Conversazione con Federico Cavallini
Incontro Federico Cavallini nel suo studio, gli ex Magazzini Generali di Livorno che per lungo tempo sono stati luogo di stoccaggio spezie. Una quantità smisurata di oggetti, scatole, libri, opere finite e quasi finite sistemati un po' ovunque; una operazione di accumulo, come una replica che solo in una fase più avanzata diviene archiviazione. E’ possibile che certi materiali rimangano inattivi per tanto tempo e non sempre acquisiscano una forma definitiva, come le balle di residui dei filtri delle lavanderie industriali che hanno occupato il centro dello studio per mesi ed erompono come un rimosso. Fuori di qui apparterrebbero alla categoria dello scarto, a qualcosa di separato, da eliminare perché escluso, al contrario, all’interno dello studio fanno parte di un processo di trasformazione in continua ridefinizione, non sempre risolta in opera finita, perché la grande quantità di materiali e le opere sono definiti anche dal loro essere in transito.
Iniziamo la nostra conversazione parlando dell’ultimo operazione “Much less than useless”, cristallizzazione in forma di libro del lavoro in un preciso momento della sua storia, una sorta di qui e ora sincronico dell’intero processo (Al momento della pubblicazione di questa conversazione lo spazio è già cambiato).
Lo spazio studio incarna dispersione e frantumazione in un tempo dove l’intero non tiene più. Equità sociale e sostenibilità ambientale, motivazione soggettiva dell’operare artistico e critica del sistema dell’arte, archiviazioni vere e simulate, accumulo e consumo prendono parte ad una tensione verso un fine posticipato sempre sospeso tra scarto e opera. E, fuori da qui, l’opera più visibile e controversa, allo stesso tempo dissimulata di Cavallini è “Koningin Juliana”, primo nome nell'imbarcazione conosciuta tragicamente come Moby Prince. Un monumento suo malgrado, un rimosso della coscienza collettiva, una vicenda storica inconclusa, collocata in un’area della Fortezza Nuova apparentemente marginale; lascia pensare a qualcosa in degrado, abbandonato, un rottame che non ha completato il suo percorso da oggetto a scarto e come la sua intera vicenda resta in una condizione sospesa.
ARC Vorrei cominciare questo incontro parlando della pubblicazione di “Much less than useless”, l’ultimo lavoro. Lo consideri un tuo nuovo lavoro in forma di libro, una documentazione o cosa?
FC Una documentazione, perché non è un libro d’artista, anche se, per comodità, quando l’abbiamo presentato è stato definito libro d’artista. E’ una documentazione, in realtà nemmeno troppo sviluppata nel tempo, in quanto sincronica. E’ come aver fissato un momento del mio lavoro in un libro.
ARC “Molto meno che inutile”. Come è nato il titolo?
FC Il titolo l’ho ripreso dal testo di Durham. “Much less than useless”, mi piaceva, mi pareva pertinente. Il titolo è sempre difficile perché è una sintesi. E’ difficile trovare una sintesi all’interno di poche parole e ho pensato che la sua sintesi fosse perfetta.
ARC. A proposito di sintesi. Sia Angelika Stepken che Jimmie Durham, sui testi che hanno scritto per te, pongono l’accento sull’accumulo del materiale nello studio e, sull’identità che andrebbe ad acquistare o perdere stando qui o uscendo fuori. E’ come se lo spazio fosse parte integrante del tuo lavoro, come se non fosse possibile distinguere quello che fai da dove lo fai. Che ne pensi?
FC Questa impostazione è cambiata nel tempo. Per realizzare il progetto ci abbiamo impiegato un anno. Da quando abbiamo fatto la prima scelta delle immagini alla fine è cambiato molto. All’inizio lo studio era ancora più presente, c’erano molte più immagini d’insieme, poi confrontandomi con Angelika abbiamo capito che la scelta poteva apparire, non banale, ma riduttiva, come se avessimo fotografato solo lo studio. Quindi abbiamo ampliato la visione e ci siamo concentrati sul dettaglio, sui singoli lavori. Abbiamo tolto quasi tutte le immagini d’insieme. E’ diventato iconograficamente più pertinente all’idea iniziale, e forse un po’ meno comprensibile ma forse un po’ più affascinante, più curioso. In realtà è stato un modo per fissare un momento irripetibile dei lavori. Già ora, è passato poco tempo, alcuni lavori si sono trasformati, non esistono più in quella forma. Non c’è solo l’accumulo, ci sono all’interno anche lavori finiti.
ARC I lavori finiti sono comunque inseriti nello spazio, in una visone complessiva.
FC Non proprio. Non tutti. Ci sono dei lavori fotografati come Still life tipo i nasi “Pork noses chinoiserie” o le sculture di pane “No tu no”. Ho fatto fare gli scatti da un fotografo che si occupa di pubblicità, sono fotografati come oggetti da pubblicità. C’è un po’ di contraddizione in questo.
ARC Questo luogo è stato un magazzino di stoccaggio merci, siamo negli ex Magazzini Generali del porto di Livorno. Come allora è sovrabbondante di cose. Hai stoccato in egual modo i materiali grezzi e i lavori finiti, il prodotto e lo scarto.
Quando Durham scrive che alcuni tuoi lavori “si possono collocare in un’altra onorata tradizione della storia dell’arte, la pittura Olandese e Spagnola” si riferisce alla pittura del XVII secolo per la quale la ricchezza è un valore morale in quanto attesta gli sforzi di una persona, quindi lodevole e da ammirare, al contempo rappresenta l’epoca dell’avanzamento dell’escluso nell’arte. Come ti rapporti a tutto questo?
FC Tendo sempre ad accumulare, a prescindere, in ogni caso, non soltanto nello studio. Questo lavoro qui di stoccaggio in realtà era nato come installazione, come progetto che doveva essere presentato in uno spazio, in una fondazione, poi alla fine non se n’è fatto nulla. Quel progetto non è andato in porto, però era iniziato tutto in questo modo qui, come un enorme “bozzetto”. La mostra non si è più fatta, ma il progetto è rimasto perché io sono andato avanti. Nel tempo è diventato un’installazione gigantesca dove si confondeva un po’ tutto: materiali da lavoro, lavori finiti e non finiti, finte e vere catalogazioni, prodotti e scarti. E’ andata avanti così per un anno circa, forse anche due. Era nato come sistema di stoccaggio e alternanza tra oggetti, al di là che fossero oggetti d’arte o di uso comune, messi così, senza una reale distinzione.
ARC Avevo pensato più ad un accumulo come spreco, come dispendio, citando Bataille.
FC Più che come spreco direi consumo. Il termine spreco non lo uso volentieri. Preferisco consumo, anche nella sua accezione più negativa, che nell’attuarsi può sfociare nello spreco, sicuramente. Il consumo è sempre finalizzato a qualcosa, anche il consumo eccessivo penso non sia mai spreco.
ARC Nella linguaggio comune il termine spreco ha un’accezione morale che consumo non ha. Intendi questo?
FC Sì, io non voglio dare un giudizio. Lavoro su quello che mi circonda quotidianamente, nel lavorare e nel consumare oggetti.
ARC Il consumo non è soltanto quello che facciamo nell’usare le cose, gli oggetti si consumano perché si deteriorano. Le cose finiscono, è questo che intendi?
FC Esattamente questo. Le cose per loro natura si deteriorano. Faccio uso di cose che si consumano in poco tempo. Non solo cose che per i materiali di cui sono composte hanno vita breve, non solo materiali organici, che ho usato e uso, ma anche oggetti realizzati con materiali plastici, plastica industriale, materiali elettronici, oggetti come tutta la mercanzia venduta dagli ambulanti. E’ tutto materiale di consumo e di consumo molto veloce, anche se sono fatti con materiali che potrebbero durare migliaia d’anni. Mi piace questa differenza tra il consumo veloce di un oggetto e la durata del materiale.
C’era un lavoro, ad esempio, una specie di installazione luminosa, che ora si è già trasformata -nel libro è presente nella versione di cui ti parlo-, fatta con una serie di lampade, che prevede un consumo di energia, di illuminazione eccessivo, per via di tutte queste lampade sistemate una accanto all’altra, lampade di consumo veloce, nel senso che l’uso di questi oggetti è veloce. Queste installazione funziona però a batteria, non a elettricità domestica, le luci sono posizionate in modo che non si possano più cambiare le pile. In questo modo si è venuta a creare un’incompatibilità tra un oggetto che dovrebbe essere un’opera d’arte luminosa, che in realtà è durata molto poco come opera luminosa, e il suo status di oggetto che rimarrà nel tempo, come oggetto non luminoso.
ARC. C’è della frustrazione in tutto questo?
FC Non direi. Io tento di essere molto generoso. Nel lavorare, nella quantità di lavoro e nella quantità di tempo impegnato nel lavoro. Tento sempre di essere generoso nel fare il lavoro e nel presentarlo e nel darlo.
ARC Non ti interessa condividere la frustrazione?
FC No, quello no.
ARC Tutta la tua opera è critica, anche verso il concetto di arte, verso il sistema che lo sostiene, così come la motivazione soggettiva dell’operare artistico. Uno dei tuoi ultimi lavori quello con il testo “Lavori piccoli per andare incontro al mercato di provincia”, è molto ironico e tratta esattamente di questo. Raccontami un po’ di questa operazione.
FC Sì, è molto ironico e alla fine diventerà paradossale. Alla fine diventerà un lavoro enorme costituito da elementi molto piccoli, dove all’interno, di regola, dovrebbero esserci lavori molto piccoli, per poter soddisfare un mercato di provincia. Nella processualità c’è una parte di alienazione che mi interessava evidenziare, volevo lavorare su questo elemento.
Il primo artista che proponemmo come Carico Massimo, qui agli ex Magazzini Generali è stato Colin Darke, un artista inglese. Fece un lavoro sull’alienazione, anche se la sua intenzione, rispetto alla mia, era programmatica. E’ un artista che ha lavorato molto sui testi di Marx e nel suo lavoro confutava questo dogma marxiano per cui l’artista rispetto a qualsiasi altro lavoratore non fa un lavoro alienante, quindi non è alienato. Questo aspetto mi interessava molto. Lui ha voluto adottare un metodo di lavoro dove c’è alienazione, perché è un metodo di lavoro molto ripetitivo che va avanti per otto ore al giorno, che va avanti nel tempo, che spesso diventa soltanto ripetizione di un gesto. La maggior parte dei suoi lavori evidenziano quest’aspetto. Io non ho costruito la stessa intenzionalità programmatica, ma ho ritrovato un aspetto del mio lavoro che c’è sempre stato, anche se non in tutti i lavori.
ARC In questo però è presente in maniera particolare.
FC Sì, ma è presente in tanti altri lavori come quello delle foglie. C’è tutta una metodologia di lavoro, di durata nel tempo, non è voluto, non c’è un’intenzione programmatica come in Colin Darke, ma spesso diventa alienante. Qui è un po’ più voluto, perché ad esempio ci sono degli elementi di consumo di tempo che potrebbe essere considerato spreco.
Sono una serie di scatole, normali scatole da imballaggio, come è consuetudine quando inscatoli qualcosa, ci scrivi sopra il contenuto, per ricordartelo e, lo scrivi una volta. In queste scatole è scritto su tutte le facce. E’ un’operazione non totalmente inutile ma quasi inutile, perché almeno tre facce sono visibili. E’ un’operazione quasi inutile, però anche una specie di imposizione, una specie di autopunizione. Non ho ancora trovato un titolo, però volevo intitolarlo “La punizione del Dott. Rossi”. Rossi è un collezionista che dice sempre <<C’hai qualcosa di piccolo?>> è come una punizione, come scrivere alla lavagna la stessa frase per punizione, tipo scrivi duecento volte <<devi fare lavori piccoli per collezionisti che vogliono lavori piccoli!>>.
ARC A proposito dell’alienazione, dicevi che non c’è una intenzionalità programmatica però è presente nel tuo lavoro. In alcuni tuoi lavori la critica sociale, come sottolinea Durham, è rivolta in direzione dell’equità, come quando utilizzi del pane o verso la sostenibilità ambientale, quando utilizzi scarti industriali, le foglie di castagno. La critica sociale è presente in forma programmatica? Come procedi?
FC Questa cosa è vera ma non è mai concettuale, perché io parto sempre dal materiale, poi il materiale mi suggerisce alcune cose che mi portano da altre parti, comunque in una direzione dove poi si sviluppa una riflessione che può anche essere sul mondo dell’arte. Cerco sempre di non essere mai autoreferenziale. Parto dal materiale e sviluppo, questo sviluppo rimane sempre aperto anche nel significato.
ARC Un lavoro non ha mai un significato che si conclude in sé o in quello che in quel momento l’artista vuol dire, ha un rapporto con chi lo guarda ma anche con il tempo.
FC Sì, altrimenti muore.
ARC Per tornare al discorso equità e sostenibilità, qualche anno fa mi facesti vedere un lavoro che qui, ora, non vedo. Erano cartelli con la scritta “Ho fame”. Ricordo che contemporaneamente vidi i lavori fatti di pane "Anatomia Companatica". In fondo due lavori molto diversi, che avevano in comune l’idea di nutrimento e mancanza di equità.
FC Quei lavori lì, li ho buttati via. Non li ho mai esposti. Li hai visti allo stato di studio, poi non sono mai maturati. Alla fine quei cartelli non sono diventati un lavoro vero e proprio ma degli spunti per un altro lavoro.
ARC Li avevi raccolti in giro, non li avevi realizzati tu?
FC Sì, li avevo raccolti in giro, per strada.
In quel momento sono stati un punto di partenza, come se avessi raccolto materiale per fare altri lavori. All’inizio c’è stata la volontà di farli diventare un lavoro, poi si sono trasformati in altro. A partire da quelli ho creato delle altre opere, differenti. Sono partito dalla forma cartello, come quelli trovati in strada, poi anche questi sono diventati paradossali. Erano in realtà dei cartoncini bristol 100x70 su cui passavo una mistura di acqua e farina, quindi completamente bianchi, ma anche materici, sui quali anagrammavo le parole “ho fame”, per cui alla fine non si capiva più la richiesta.
ARC Un aspetto interessante del tuo lavoro è questo continua trasformazione del materiale in lavoro quasi-finito, che in molti casi rimane sospeso per parecchio tempo nella forma di scarto. E’ possibile che certi materiali rimangano inattivi per tanto tempo, come i residui dei filtri delle lavanderie industriali che hanno occupato il centro dello studio per molto tempo e non sempre hanno acquisito una forma.
FC Li ho tenuti per molto tempo poi li ho buttati. Ho tenuto quattro o cinque sculture che avevo fatto, il resto l’ho buttato via. Rimane a livello di progettualità nel caso dovessi farci qualcosa. Questi sono rimasti perché mi piacevano. Nel caso dovessi fare un progetto per una mostra ho già in mente la possibilità di andarlo a riprendere e di riutilizzarlo.
ARC Torniamo sempre al residuo, all’arte come resto. Cito Perniola “Se l’arte è resto ovvero resistenza vuol dire che è attraversata da conflitti, fratture” e in questo studio di fratture, squarci ce ne sono parecchi. E’ uno spazio di dispersione e frantumazione. L’intero non tiene più?
FC Questo elemento del resto, del frammento e, quindi alla resistenza a qualcosa che non sia frammento, resto, che non sia qualcosa di intero, di ufficializzato, di istituzionalizzato ha un po’ caratterizzato un filone dell’arte negli ultimi venti, venticinque anni. Ne tratta in maniera chiara il libro “L'Exforma” di Bourriaud dove il punto è il rimosso. La psicoanalisi stessa si è sviluppata attorno al concetto di rimozione. E’ una rimozione continua. Gli artisti del Novecento hanno sempre lavorato su questo. Io ci lavoro. Vivere in Italia vuol dire vivere a contatto continuo con le rovine, sia per la storia passata, sia per la storia più recente. Considera la traccia profonda che la Seconda Guerra Mondiale ha lasciato qui a Livorno. Nella contemporaneità si vive sempre di qualcosa che diventa archeologia il giorno dopo. Non si riesce a vedere l’insieme, focalizzare il tutto. Io, ad esempio ho un certo fastidio per la fine, per qualcosa che è finito, completo. Ho sempre la sensazione che sia qualcosa di morto.
ARC Un tuo lavoro che a guardarlo sembrerebbe un opera finita, ma a mio parere non è così, è “Koningin Juliana”. Vorrei ricordare che “Koningin Juliana” è un monumento che commemora le 140 vittime del “Moby Prince”.
FC Quello è un lavoro che io faccio molta fatica anche a guardare, a passarci davanti. E’ un lavoro che non riconosco completamente. Quel lavoro non è nato, in realtà, come un monumento, non è stato commissionato, è nato come una scultura che doveva denunciare una vicenda storica. La mia intenzione era differente. La scultura, il monumento doveva essere rottamato, doveva sparire. Era sicuramente un oggetto fatto per durare, realizzato in corten, che alla fine della mostra doveva sparire, doveva essere distrutto. Doveva essere venduto come rottame, a peso, e il denaro in qualche modo immobilizzato, che non circolasse più. Poi ha preso un’altra strada, alla quale io ho aderito in qualche modo. Il monumento non è stato commissionato, però è stato pagato dai familiari delle vittime. Loro hanno voluto che rimanesse e che diventasse il monumento commemorativo.
ARC A vederlo così sulla Fortezza sembrerebbe un oggetto finitissimo, del resto è un cubo. Più finito di così? In realtà anche questa opera è un frammento, manca di qualcosa, di più di qualcosa, di tanto, compreso un suono che ora, come monumento, non ha più. Non so se questo facesse parte dell’intenzione, ma ha una chiara ascendenza di derivato, penso al cubo di Tony Smith e via via a cascata tutti i cubi derivati di ascendenza minimalista.
FC Sì, è esattamente così. Avevo visto un lavoro di Richard Serra, un cubo un po’ inclinato, era un monumento a Charlie Chaplin a Berlino e, poi un altro cubo: il progetto di Malevic per il monumento a Lenin. Gli chiesero di fare questo monumento a Lenin e lui presentò un cubo che rappresentava una sintesi formale del carattere, della rettitudine e fermezza di Lenin. Ovviamente non fu mai realizzato. La forma è stata una citazione di quelle forme e poi, mi sembrava che fosse perfetta come sintesi di una barca. Poteva essere una prua che puoi vedere da qualsiasi angolo, come se fosse una ripetizione in loop della prua di una nave.
ARC E’ vero che la rottamazione non è avvenuta, però la percepisci. E’ presente nella forma del cubo stesso, tipica forma dell’oggetto in ferro compresso dopo la rottamazione. Oggi poi, il termine rottamazione, inteso come rimozione, va così di moda! E qui torniamo al rimosso.
FC Il discorso che fai tu sul rottame si incastra perfettamente sulla decisione di posizionamento che ho fatto nel momento in cui si è presa la decisione di esporlo come monumento. La collocazione sembra marginale, sembra quasi nascosto, quasi abbandonato. Si vede, però sembra abbandonato. Se si hanno i mezzi per comprendere lo vedi, altrimenti sembra qualcosa lasciato lì. Non ho mai voluto venisse sistemato in una piazza. Dialoga bene con un altro monumento della città che è la Fortezza. Collocato in quel modo, ne sembra un prolungamento e poi, ricorda una cosa a cui io ho pensato dopo. Ricorda un po’ il periodo nel quale in Fortezza c’erano le baracche. Fino agli anni settanta, in fortezza c’erano le baracche di quelli che avevano perso la casa sotto i bombardamenti, c'erano gli sfollati della Seconda Guerra Mondiale e ci sono rimasti fino alla metà degli anni Settanta. Come c’erano in tutte le città bombardate massicciamente. Nelle foto che ho visto all’Archivio di Stato si vedono questi parallelepipedi.
ARC Penso che alla fine è molto meglio che l’opera esista e sia lì.
FC In realtà quello che mi è venuto in soccorso, per il discorso della trasformazione da opera a monumento, che me lo fa digerire, sono le scritte molto demonizzate che ogni tanto ci fanno sopra i Writers. Io queste scritte qui le uso, le rifaccio pari, pari sui lavori che non mi convincono, che non hanno trovato una chiusura. Li completo riportando le scritte. Scritte che sono una specie di censura e, in quanto censura le rifaccio in lavori che non hanno ancora una fine. Un riconoscimento a qualcosa di istituzionale e contestato.
ARC