Il ciclo di lavori “Interventi” di Federico Cavallini prevede una serie di Installazioni in diverse importanti chiese italiane. Finora sono già stati realizzati i lavori nella chiesa di San Gioacchino,  e nella chiesa di San Domenico a Ceglie Messapica, provincia di Brindisi, e quella al Mausoleo di Santa Costanza, Roma, grazie all’aiuto della Soprintendenza ai beni culturali di Roma, per la parrocchia di Sant'Agnese fuori le mura. 

L’”intervento” di Cavallini prevede il semplice innesto di un velo di 2547 foglie raccolte una per una e maniacalmente e pazientemente attaccate l’una all’altra dall’artista. Il velo finale ottenuto normalmente è largo 150 cm e alto 225 cm,  ed il suo peso è solamente di 80 grammi. L’opera ottenuta, flebile ed effimera, nonostante il lunghissimo periodo necessario a realizzarla, è composta da foglie che provengono da un albero di pero, piantato a Livorno nel 1999, colpite da un parassita che distrugge lentamente la pigmentazione esterna risparmiandone soltanto la nervatura legnosa. Le foglie sono state raccolte tra il 2003 e il 2006, ed attaccate una all'altra senza bisogno di ulteriori strutture di sostegno. In quest’ultima installazione, la scultura di foglie è diventata 240 cm poiché sono state aggiunte alcune foglie del 2007. La scultura ha leggermente perso la forma perfettamente rettangolare, infatti l'ultima parte è più frammentata, dato che le ultime foglie sono attaccate in modo che formino delle vere e proprie pieghe aggettanti verso il basso, come se fosse una tela o una bizzarra pianta alla quale stanno spuntando le radici. Differentemente dalle altre occasioni la scultura è sospesa e bloccata grazie a due forze opposte una che la spinge verso l'alto e una che la trattiene verso il basso, tutto però è precario, incerto. Alzando gli occhi saranno visibili i palloni  trasparenti che la tengono in cielo.

A completare l’opera la presenza di un libro che documenta una per una le foglie utilizzate, come una sorta di vera e propria enciclopedia di ciò che è accaduto, come una mania da scribacchino che copia fedelmente una bibbia.

La documentazione e la metodologia realizzativa dell’opera sono, a mio avviso, inscindibili dall’opera. Vera e propria reliquia moderna, il lavoro effimero di Cavallini, vive assolutamente di questo assembramento manuale e maniacale, che ne fanno una sorta di tempo esposto… tuttavia l’opera è trasparente, il pero era ammalato e le foglie trasferiscono la loro esilità ad un manufatto esso stesso leggerissimo e trasparente, morente, in un certo senso morto, vivo solo come opera. Dal punto di vista emotivo è presente una desolazione che sembra richiamare Tanguy o una sorta di spoglio e deconnotato Magritte, di cui se ne conserva la malinconia ma ne è assente l’ambiguità semiotica, tuttavia le radici sono molto diverse.

 

Nato a Livorno nel 1974, Federico Cavallini si è laureato in Storia dell'arte medioevale alla Facoltà di Lettere e  Filosofia di Pisa, ma vive e lavora tra Roma e Livorno. Le strutture effimere che realizza hanno radici nell’arte contemporanea concettuale e contestuale e nell’arte povera, ma nella loro poetica strettamente pittorica sono perfino classici; integrandosi dentro ad una sorta di moderno memento mori, Cavallini possiede una leggerezza pittorica, e una liricità precipua. Venute fuori da un lavoro lento di assemblaggio di ogni singolo elemento, le sue strutture  non hanno nulla a che vedere con opere tipo il merzbau, né con la memoria vissuta o del vissuto di Schwitters, qui il lavoro procede piuttosto verso la memoria dentro agli alberi di Penone, pur essendo operazione ancora diversa, non l’infanzia, ma la caducità e la malattia della natura sono il punto di Cavallini.

Al tempo stesso però questo lavoro fragile, effimero destinato ad una veloce consunzione, non è solo una sorta di vera e propria reliquia, sebbene tuttavia reliquia terrena e che parla del terreno, ma un operazione pittorica molto sottile; il tempo della visione dell’opera è un tempo lento, la memoria sedimenta in una maniera più simile a quella di un Seurat, o, per andare nell’informale, di certo Dubuffet, o di un Tobey, l’occhio spazia lento e scopre il segno paziente che complicemente si è assembrato… memoria del vissuto dell’albero si diceva, ma anche memoria della mano che attacca i singoli pezzi, visione d’insieme, ma anche visione di un insieme assottigliato e amalgamato, non la stesura uniforme di Reinhard, non il tempo vibrato di Rotchko, né i guizzi di Matthieu, né il gesto-tempo, memoria  immediata di Pollock… La memoria qui sedimenta come un pensiero forte e lo sguardo scorre “attraverso” l’opera, sulle foglie e dentro le foglie, ossia nella trasparenza, risalendo appunto fino al lavoro di assembramento e fino alla malattia dell’albero, lento come scorre su un quadro di Seurat, in cui viene in mente Seurat che sceglie i colori e studia le reazioni. Lo sguardo traversa la scultura guardando anche la chiesa che appare dentro e dietro. Il lavoro diviene per un istante la memoria della natura e della campagna, una natura che respira, si ammala, e passa le stagioni, e per essa, dentro essa, della vita pittorica dell’opera. Installandola nelle più rappresentative chiese, cioè nei luoghi in cui viene celebrata e ricordata continuamente la storia (gli interventi e il succedersi degli artisti), ossia in quella che è la parte spirituale (ma non solo) dell’umanità; l’opera di Cavallini parla invece solo del “terreno”, il caduco in Cavallini è in contrasto con la ricchezza dello spirito e dell’arte classica, ma non con la pittura e coi contenuti profondi, è la “povertà” del mondo terreno, effimero e trasparente, caduco e invadente, una vera e propria “reliquia moderna”, si diceva, ma è anche la memoria che si trasporta nel segno, lenta la visione, lento il lavoro, lenta, ricca e caduca la vita.

In Cavallini il lavoro faticoso, è tuttavia effimero, ma è l’opera d’arte… un pensiero trasparente, presente, denso eppure leggero, spirituale nel suo essere totalmente terreno,  memento dentro al terreno e al Sacro e all’eterno (im)mutabile? Dio.

 

Fabrizio Pizzuto

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